giovedì, ottobre 30, 2025

Ottobre 2025. Il meglio

Manca poco alla fine del 2025:
tra i migliori album quelli di New Street Adventure, Little Simz, Bob Mould, The New Eves, Big Special, Kae Tempest, Sam Akpro, Freedom Affair, Southern Avenue, Little Barrie & Malcolm Catto, Paul Weller, Cardiacs, Ty Segall, Suzanne Vega, The Loft, Sunny War, The War and Treaty, Ringo Starr, Iggy Pop, Cymande, Lambrini Girls, De Wolff, PP Arnold, Altons, Delines, Gyasi, M Ross Perkins, The Who, Nat Birchall, Robert Plant, The Prize.

Ottime cose dall'Italia con Casino Royale, Simona Norato, Neoprimitivi, Calibro 35, Cesare Basile, The Lings, The Lancasters, Putan Club, Cristiano Godano, I Cani, Billy Boy e la sua Band, Megain Is Missing, Laura Agnusdei, Elisa Zoot, Roberta Gulisano, Angela Baraldi, Flavia Ferretti, Rosalba Guastella, Alex Fernet, Mars X, The Ghiblis.


NEW STREET ADVENTURE - What Kind Of World?
Torna la band di Nick Corbin dopo un lungo silenzio con un album di rara bellezza. Tanto soul, da quello più introspettivo alla Curtis Mayfield/Marvin Gaye, a impennate Northern ("Let Me Loose" farebbe saltare per aria ogni dancefloor), fino al torrido funk di "Everyone's A Music Maker" (roba tra Sly and the Family Stone e i Temptations di "Cloud Nine"). L'album che da anni vorremmo da Paul Weller (a cui l'estetica sonora e l'impronta vocale si avvicina parecchio). Stupendi arrangiamenti di fiati e archi, musicisti di pura eccellenza, canzoni semplicemente perfette. Non per niente il tutto è targato Acid Jazz Records

ROBERT PLANT - Starving Grace
Il cammino solista di Plant è sempre stato all'insegna della raffinatezza, ricerca, omaggio alle sue radici blues, folk, country, gospel, in varie declinazioni e sempre arricchito da preziose collaborazioni. Non fa eccezione questo nuovo, pregevole, lavoro, in cui omaggia vecchie canzoni blues e folk ma si apprpria anche di uno stupendo brano dei Low. Grande.

TCHOTCHKE - Playin' Dumb
Il trio di ragazze NewYorkesi torna con un album grazioso e a tratti irresistibile, a base di power pop, Bangles, Go Go's, Beach Boys, Hollies, Beatles, bubblegum pop e altri deliziosi ingredienti zuccherosi. A dirigere le operazioni i fratelli D'Addario, alias Lemon Twigs, che producono e suonano mille strumenti dappertutto.

KATHRYN WILLIAMS - Mistery Park
La cantautrice di Liverpool firma il quindicesimo album, all'insegna di una canzone d'autore folk intimista di più che ottima qualità. A dare una mano ci sono anche Paul Weller, Polly Paulusma, Ed Harcourt, tra gli altri. Per chi ama atmosfere pastorali e auliche è il lavoro perfetto.

JOHNNY MARR - Look Out Live!
L'ex chitarra degli Smiths non ha mai lasciato particolari capolavori nella carriera solista ma, allo stesso modo, tanti buoni e dignitosi dischi che ne hanno confermato le indubbie capacità compositive e interpretative.
Il tutto converge in questo ottimo live in cui affianca a sue ottime songs, alcuni immancabili classici degli Smiths (This Charming Man, How Soon Is Now?, Bigmouth Strikes Again, Panic, Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before) bene eseguiti e interpretati oltre all'ospitata di Neil Tennant dei Pet Shop Boys e un paio di cover discrete come "Rebel Rebel" e una evitabile "The passenger". Bel disco, registrato e suonato impeccabilmente.

RICHARD ASHCROFT - Lovin' You
Decisamente debole il nuovo dell'ex voce dei Verve, perso tra mielose ballate, spesso ripetitive, facilmente dimenticabili e l'ossessivo tentativo di ripetere le atmosfere di "Bittersweet Synphony". Nemmeno il disco sound di "I'm a rebel" riporta vigore a un lavoro sinceramente trascurabile.

TAME IMPALA - Deadbeat
Nati come paladini di una psichedelia moderna e innovativa, i Tame Impala di Kevin Parker, sono progressivamente andati verso una dimensione trance/techno/house che potrebbe essere un effettivo nuovo sbocco delle radici precedentemente piantate. Il nuovo album è purtroppo incolore e noioso, impersonale, sostanzialmente deludente.

SHAME - Cutthroat
Tra i pionieri della nuova ondata post punk, hanno continuato un buon percorso molto più in sordina rispetto ad altri (Fontaines DC, Idles) assurti a notorietà globale. Il nuovo album è una buona conferma, pur se, paradossalmente, rischia di passare nell'anonimato, no ndicendo granché di nuovo. Gli appassionati troveranno di che goderne, comunque.

THE PRIZE - In the red
Il quintetto australiano confeziona un arrembante album in perfetto equilibrio tra power pop, Buzzcocks, punk rock, mod rock '79 (gli amanti dei Chords troveranno molte similitudini). Compongono bene, sono compatti e diretti, duri e pieni di energia teen. Ottimo lavoro!

THE WIND UPS - Confection
La band californiana riprende il songbook dei Ramones, aggiunge una chitarra gracchiante e confeziona un buon terzo album che non brilla di originalità né entrerà negli annali ma si lascia ascoltare con piacere.

BEBALONCAR - Love To Death
Il trio bolognese ha già marchiato a fuoco la scena underground italiana con due album di grande valore che hanno coraggiosamente mischiato elementi poco utilizzati ai nostri giorni. In particolare i Velvet Underground più oscuri e malati, richiami shoegaze, Jesus and Mary Chain ma anche la psichedelia meno scontata e "floreale" degli anni Sessanta. Il nuovo lavoro, che chiude una trilogia incentrata sulla profondità e il tormento dell'animo umano, allarga gli orizzonti verso folk e dream pop, palesando un maggiore ottimismo sonoro, guardando più spesso agli amati anni Sessanta (vedi l'unica cover, Pretty Colors dei Just Us, del 1966). Di nuovo un disco di grande spessore, originalità, personalità. Imperdibile.

THE LANCASTERS - The Word of the Mistral
Nuovo eccellente lavoro per la band bresciana che non esita ad attingere dalla migliore tradizione rock blues targata anni Settanta (Stones, Led Zep, Trapeze, Grand Funk Railroad). Suonano benissimo, con una perfetta padronanza della materia e la capacità di comporre canzoni a livelli altissimi e di grande pregio. Non c'è alcun afflato nostalgico o revivalista ma solo un grande album di rock sanguigno, blues, ricco di freschezza, attualissimo.

THE GHIBLIS - High Noon Mirage
Sembra facile fare un album di surf strumentale nel 2025. Il problema è non essere prevedibili, in un contesto che (apparentemente) non offre molte vie d'uscita. I piacentini Ghiblis, invece, hanno studiato a fondo la materia e riescono a tirare fuor un album più che godibile, vario, ricco di influenze e riferimenti (dal rock 'n' roll al rhythm and blues, exotica, lounge, perfino perfino la canzone tradizionale napoletana, nella conclusiva "Napoli in farmacia"). Più che ottimo.

BOP GUN – Vol. 1
L’album d’esordio della band bolognese parla un linguaggio noto ma sempre accattivante e coinvolgente ovvero quello del funk arricchito da pennellate jazz e da occasionali intermezzi rocksteady/reggae (“Black a cop”), con un particolare legame al mondo delle colonne sonore anni Settanta. Il riferimento più immediato e ovvio va alla collaudata esperienza dei Calibro 35 ma in questo caso c’è una buona dose di originalità e personalità, oltre a una capacità compositiva ed esecutiva di gusto raffinato.

EDDA – Messe sporche
Non ha bisogno di particolari presentazioni l’ex voce dei Ritmo Tribale, tornato sulla scena musicale con un’attività solista ricchissima di soddisfazioni e riconoscimenti e che ora aggiunge il settimo album a una discografia di sempre alto livello qualitativo. Il nuovo lavoro torna al rock, più duro e arrembante, con sguardi al rock blues, fino ad arrivare al punk e al blues più malinconico. La classe è quella che conosciamo, lo stile che lo ha sempre contraddistinto rende “Messe sporche” un altro eccellente tassello di un’avventura sonora di grandissimo spessore.

ANDREA LASZLO DE SIMONE – Una lunghissima ombra
Un lavoro di difficile collocazione, accompagnato, non a caso, da un lungometraggio, di cui “Una lunghissima ombra” è l’ideale colonna sonora. Onirica, sognante, fluttuante, tra suoni e approccio ambient, canzone d’autore (da Lucio Battisti a Claudio Rocchi), psichedelia, prog, Radiohead. Ma c’è molto di più rispetto ai riferimenti elencati ed è una personalità da tempo definita e che spicca tra le migliori e più significative nella scena autoriale italiana. Un ascolto è d’obbligo.

DELTA V - Fatti ostili
Il settimo album dei Delta V fa immediatamente centro, restando ancorato alle proprie radici, come sempre perfettamente in equilibrio tra pop ed elettronica ma con un’anima post wave e tematiche conturbanti, fino a diventare quasi disturbanti (vedi il passaggio in Nazisti dell’Illinois “Leggi le classifiche, brucia le classifiche, non accontentarti mai, al limite spara al dj”). Album raffinato e curato, ricchissimo di spunti, avvolgente e ammaliante. L’augurio è di avere il giusto risalto, in un’epoca artistica in cui la mediocrità la fa da padrona.

WESLEY AND THE BOYS - Rock 'n' roll ruined my life
Il quartetto americano scartavetra le orecchie con un punk rock minimale, dai suoni compressi, distorti, primitivi, ritmiche ossessive, voce alla Lux Interior. Non c'è nulla che conceda qualcosa al gradevole, solo sporcizia del rock 'n'roll più truce.

SINGOLI

Temporary Blessings - Cold Blood
La band australiana si muove nel contesto (strumentale) delle colonne sonore dei film Sessanta (con particolare riguardo per Morrcione e Piccioni). Molto ben fatto.

Angels of Libra – I Fell In Love
Delizioso brano in pieno groove e stile Northern Soul. Da immediato dancefloor.

Jeb Loy Nichols - No Rest Without Love
Stupenbda soul ballad che riporta agliStones anni Settanta, Thee Sacred Soul e JJ Cale.

ASCOLTATO ANCHE:
ASH (carino ma nulla più), MONDO FREAKS (disco funk di grande eleganza e alto livello per la band australiana), RETI (soul/funk/disco dall'Estonia, ben fatto e con un ottimo groove), LAST DINNER PARTY (pop glam, sentore anni 70, trascurabili), S-TONE INC (soft soul funk, piacevole).

LETTO

I 500 grandi dischi del rock
Anche CLASSIC ROCK ha pensato bene di fare la classifica dei 500 MIGLIORI ALBUM ROCK di sempre.
Attraverso una scelta preventiva dei redattori si è arrivati alla lista finale.
Da parte mia ho scritto una cinquantina di schede (da Paul Weller ai Beatles, dai Bad Brains ai Black Flag, dai Sonic Youth a Patti Smith, da "Quadrophenia" a "Sandinista").
Il GIOCO è già stato fatto decine di volte e ovviamente tale rimane, altrettanto ovviamente è tutto opinabile, discutibile e grande sarà lo scandalo perché c'è questo e non quello e che, per me, vedere "Stanley Road" di Paul Weller al 452° posto dietro a "Hair of the dog" dei Nazareth fa friggere il sangue. Ma è appunto un gioco.
Un modo per fare conoscere ai più giovani quello che è (stato) il rock e per i più attempati ricordarsi di tanti titoli dimenticati.
L'aspetto più scontato ed evidente è la presenza in stragrande maggioranza di album dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta.

Klaus Romilar - Scala Richards vol.1
Un libro tanto visionario quanto accattivante per noi onnivori musicali.
Quattordici racconti firmati da Klaus Romilar, personaggio leggendario, frutto di un lavoro collettivo di vari scrittori appassionati di musica e letteratura.
Si viaggia in mille direzioni, tra episodi di vita vissuta e altri di situazioni immaginate.
La musica (a 360 gradi, dai Liquid Liquid a Jorma Kaukonen, da Bob Dylan a John Lee Hooker ai Dead Kennedys, ai "mali" del Prog Rock, con tanto di dritte finali in ogni capitolo per avvicinarsi ai nomi citati) è il filo conduttore di ogni episodio.
Ci si diverte molto e, non di rado, è facile immedesimarsi nelle vicende narrate.
Molto gradevole, scritto bene e con tanto gusto.
La prefezione di Marino Severini dei Gang vale da sola l'acquisto.

Cristiano Colaizzi / Corrado Rizza - Disco Playlist Italia 1975-1995
Esce a, distanza di due anni, il seguito di "Roma Disco Playlist -1965-1995" (sempre per VoloLibero).
"Disco Playlist Italia 1975-2025" è un maniacale elenco di 246 playlist (con relativo QR Code per ascoltarle), con 4.500 brani che documentano il lavoro di 196 DJ in 180 discoteche di tutte le regioni italiane, dal 1977 al 1995.
Scorrendole troviamo grandi sorprese, brani oscuri, hit dimenticate e una cultura della discoteca che esula dal consunto concetto di "musica commerciale da ballo", tra soul, Philly Sound, elettronica, new wave e altro.
La lista dei protagonisti è spesso nota e prestigiosa (da Cecchetto a Fiorello, Jovanotti, Roberto D'Agostino, Mozart, Ringo etc).
Il tutto contestualizzato all'epoca, gli anni di riferimento, con tanto di interviste, foto, note.
Tanto specifico quanto interessante.

COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Ogni lunedì la mia rubrica "La musica che gira intorno" nelle pagine di www.piacenzasera.it
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

APPUNTAMENTI

NOT MOVING
"That's All Folks!" Tour


*** Domenica 9 novembre: Lucca Underground Festival- Capannori (Lucca) Polo Culturale Artemisia Ore 17
*** Sabato 23 novembre: Savona "Raindogs" ore 22
*** Venerdì 5 dicembre: Pisa "Caracol" ore 22
*** Sabato 13 dicembre: Poviglio (Reggio Emilia) "Caseificio La Rosa"
*** Venerdì 19 dicembre: Cagliari "Fabrik"
*** Sabato 20 dicembre: Sassari "Teatro Verdi"
To be continued in 2026

mercoledì, ottobre 29, 2025

The Seeds

Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back

SPECIALE THE SEEDS.

Tra le più importanti e influenti band della scena garage punk americana (pur se molto più personali della maggior parte delle band dell'ambito), tra i primissimi a utilizzare la tastiera come basso (Ray Manzarek riprese la tecnica più tardi con i Doors), autori di un classico senza tempo come "Pushin Too Hard", compositori delle loro canzoni in tempi in cui le cover erano spesso preponderanti negli album dei loro contemporanei.

The Seeds (1966)
Esordio fulminante, crudo nei suoni, con la voce di Sky Saxon debitrice a Mick Jagger e Phil May dei Pretty Things.
Oltre a "Pushin Too Hard", la "sorella" (compositivamente e come struttura) "No Escape" e un altro gioiello come "Can't Seem to Make You Mine".
L'album ha un portamento molto maturo, pur partendo da matrici rhythm and blues, con riferimenti jazz, proto psichedelici e atmosfere spesso ipnotiche.

A Web of Sound (1966)
Uscito dopo solo sei mesi dall'esordio, segna già un cambio brusco di rotta, indirizzandosi verso suoni più psichedelici ("Just let Go") e sperimentali ("Roll' Machine" ad esempio) con la seconda facciata occupata quasi interamente da quasi 15 minuti di "Up In Her Room", un blues psichedelico scarno e ipnotico.

Future (1967)
Il focus si sposta sempre di più verso la psichedelia e il freakbeat, mantenendo però un legame solido con la matrice più ruvida degli esordi. Paradossalemente furono "accusati" di imitare i Beatles di "Sgt Peppers", uscito qualche mese prima, quando invece "Future" era stato registrato già da tempo.
In realtà le connessioni tra i due album sono minime.
La psichedelia dei Seeds è minimale e cruda. Utilizza strumenti inusuali ma di "flower" c'è poco.
"A thousand Shadow" riprende ancora una volta l'incedere di "Pushin' Too Hard", gli otto minuti di "Fallin'" sono un incubo lisergico, un trip andato male, "Sad and alone" è acida e dura. Disco molto interessante e troppo sottovalutato.

Sky Saxon Blues Band - A Full Spoon of Seedy Blues (1967)
Con una scelta poco oculata la band torna alle radici blues (collaborando con vari membri della band di Muddy Waters), cambiando anche nome in Sky Saxon Blues Band, pur con la stessa formazione dei Seeds, in un momento (fine 1967) in cui la psichedelia è al top dell'interesse mediatico e artistico.
Un buon album ma estremamente impersonale e derivativo.

Raw & Alive: The Seeds in Concert at Merlin's Music Box (1968)
La carriera si chiude con un finto album live, in realtà realizzato in studio con l'aggiunta successiva di applausi e urla. Scorrono le hit ma si avverte la mancanza della dimensione da palco e l'inserimento dei rumori del pubblico è palesemente posticcio e artefatto.
Il risultato è comunque gradevole, sorta di Greatest Hits della band.

Il successo sarà scarso, perdono membri del gruppo, Sky Saxon continua qualche anno prima di chiudere l'avventura SEEDS.

martedì, ottobre 28, 2025

Power to the People (box set) e l'esclusione di "Woman is the Nigger of the World"

E' da poco uscito il lussuoso (e di conseguenza costoso) box set "Power to the People" di di John & Yoko Plastic Ono Band con il remix di "Some Time in New York City" del 1972, il live (pomeridiano e serale) dei concerti di John e Yoko, accompagnati dalla Elephant's Memory Band al Madison Square Garden il 30 agosto 1972 oltre a una serie di demo, provini e altro (ad esempio un libretto di 200 pagine).

Costo 200 euro circa con edizioni differenti più alla portata di portafoglio (ma con solo il live).
Concerto molto interessante, versioni potenti e tiratissime di "Come Together", "Cold Turkey", "Instant Karma", "Hound Dog" e varie dall'album di quell'anno, oltre a "Imagine".
La band suona bene, la testimonianza è importante, un buon live.
I demo, sono come quasi sempre accade, trascurabili, non ho ascoltato i provini e le jam in sala prove.

Il principale motivo di stupore è l'assenza (non giustificata e, a quanto pare, nemmeno citata nel libretto) di "Woman is the Nigger of the World", il cui titolo fu oggetto di censura e dibattito già alla sua uscita (John lo scelse volutamente come singolo).
Frase provocatoria e paradossale proprio per attirare l'attenzione sul doppio problema del razzismo e sessismo.
Ma eravamo nel 1972 e si sperava che, oltre mezzo secolo dopo, il problema fosse superato e il significato chiaramente comprensibile.

Decisamente ancora più grave, perché, al di là del contenuto artistico della canzone, omette, senza giustificazione alcuna, una parte dell'opera.
Ancora più sorprendente perché il remix è opera del figlio Sean Ono Lennon e l'operazione ha avuto l'avvallo di Yoko Ono.
Inspiegabile e sconcertante.

lunedì, ottobre 27, 2025

Hazel Scott



Riprendo un articolo che ho scritto per IL MANIFESTO sabato 9 maggio 2020, dedicato all'artista e pianista HAZEL SCOTT.



Il razzismo e il segregazionismo che infettarono ufficialmente gli Stati Uniti fino agli anni 70 (e successivamente in modo più subdolo e sotterraneo si sono ben conservati fino ai nostri giorni, con tanto di massiccia e gradita esportazione in Europa e resto del mondo) fecero un numero enorme e imprecisato di vittime.

Da quelle linciate e appese a una corda a quelle (tutt'ora) assassinate per “legittima difesa” da polizia e bravi cittadini timorati di Dio, fino a coloro che non poterono mai sviluppare il proprio talento e le proprie capacità, artistiche e lavorative, a causa del colore della pelle.

Alla faccia del “paese delle opportunità”.
In ambito artistico non si contano le carriere spezzate, boicottate, mai iniziate, di chi non si piegò ai brutali divieti, alla separazione, coercizione, prevaricazione.
Se in aggiunta eri pure donna e tenevi testa alle “regole”, la tua vita (artistica e non) era il più delle volte segnata.

Nina Simone fu sostanzialmente costretta a lasciare gli States (che gliela fecero pagare pesantemente, sospendendo distribuzione e pubblicazione dei nuovi album) a causa delle sue posizioni che non contemplavano alcun compromesso su certe tematiche, altre si adattarono ad aggiustamenti più o meno onorevoli, cercando di fare passare il “messaggio” in modo meno diretto ed esplicito.

Hazel Scott, eccelsa pianista, voce potente, caldissima e suadente, genio del jazz e della musica, spesso reputata di essere degna di apparire, nella storia, al fianco di nomi tutelari come Duke Ellington o Count Basie (nella cui orchestra suonò all'età di 15 anni, in radio e nei club!), stretta amica di Billie Holiday che la aiutò ad entrare nello star system, è stato un esempio perfetto, nella sua perversa negatività, in tal senso.

Negli anni 50 fu severamente punita per il suo impegno per i diritti civili e per quelli della comunità nera, inserita dal Comitato per attività anti americana nel famigerato “Red Channels” che indicava gli artisti vicini al Partito Comunista Americano, che di fatto la privò della possibilità di svolgere un'attività artistica negli Stati Uniti.

“C'è solo un tipo di persona libera in questa società ed è bianco e maschio” (Hazel Scott).

Se ne andò a Parigi, esibendosi per anni in Europa, tornando in patria solo a metà degli anni Sessanta, quando però ormai reinserirsi nel circuito era impresa ardua (anche a causa dei cambiamenti stilistici e del gusto del pubblico). Nata a Trinidad, di origine nigeriana Yoruba, cresciuta a New York, bambina prodigio (definita già all'età di otto anni “un genio”), stella predestinata del jazz, incominciò prestissimo, in virtù di una tecnica smisurata e di una capacità esecutiva pressoché unica, a farsi strada nel mondo dello spettacolo.

“Ho sempre saputo di essere dotata, che non è la cosa più semplice da far conoscere al prossimo perché non sei consapevole del dono ricevuto ma solo per quello che ci fai”.

Arrivò a Hollywood negli anni 40, entrando nel cast di diversi film e diventando protagonista di numerosi musical teatrali di grande successo da “I dood it” diretto da Vincent Minelli a “Raphsody in blue”, sulla vita di Gershwin.
Divenne famosa per sapere arrangiare pezzi classici (da Liszt a Bach e Chopin) in chiave jazz e blues, il cosiddetto “Swinging Classic”, entusiasmando anche la first lady Eleanor Roosvelt, presente a un suo concerto. Ma il ruolo perennemente assegnatole, come era prassi ai tempi, di macchietta (la donna di servizio nera che suona allegra e sorridente per i padroni bianchi, in un cast in cui non ci sono altri personaggi di colore) che non volle sapere di accettare (clausola che poneva sempre come essenziale prima di firmare un contratto) la indusse a lasciare il cinema e a tornarsene a New York.
Dove ottenne, prima donna nera in assoluto, un proprio show televisivo, l'“Hazel Scott Show”, dove, per tre giorni la settimana, suonava la musica che preferiva (jazz, boogie, blues), anticipando di parecchi anni, quello che divenne il primo importante show musicale condotto da un nero, di Nat King Cole, personaggio molto più accomodante e sicuramente meno impegnato politicamente. Intransigente, pose sempre regole ferree sulle modalità dei suoi concerti, come ad esempio il rifiuto di esibirsi in luoghi in cui vigeva la separazione razziale (cosa che ovviamente le tagliò un gran numero di possibilità di live).

Negli anni 50 una corda divideva il pubblico bianco da quello nero nei club e nei teatri (talvolta sistemata in fretta e furia quando gli organizzatori si rendevano conto di avere chiamato a esibirsi un artista nero, del cui colore della pelle era ignari in precedenza).
Ray Charles fu condannato, ancora nel 1961, per avere annullato un concerto in Georgia, una volta saputo che gli spettatori sarebbero stati separati.
Alla fine degli anni 50 al gruppo di colore dei Flamingos, prima di un concerto in Alabama , fu intimato dalla polizia locale di cantare guardando solo in alto, verso il loggione, dove erano confinati i neri e di non azzardarsi a volgerlo verso la platea dove avrebbero potuto vedere o incrociare lo sguardo con qualche donna bianca.

Certo, si tratta di casi limite dai tratti, drammaticamente, quasi folkloristici, ma il clima generale, soprattutto al Sud, era questo.
E se quanto descritto era l'aspetto più visibile ed eclatante, nella vita quotidiana, nei rapporti sociali, nelle situazioni più banali, le differenze erano marcate e il solco profondo.

“Perché qualcuno dovrebbe venire ad ascoltare una “negra” e poi rifiutare di sedersi vicino a una persona come me?”, dichiaro' la Scott.

La sua vita le poteva bastare, era famosa, ben pagata e il futuro le avrebbe riservato ancora di meglio. Ma la sua caparbietà e onestà la spinsero a presentarsi al Comitato di cui sopra con una dichiarazione chiara, pulita e precisa:
“Gli attori, i musicisti, gli artisti, i compositori e tutti gli uomini e le donne delle arti sono desiderosi e ansiosi di aiutare e servire il nostro paese. Il nostro paese ha bisogno di noi oggi più che mai.
Non dovremmo essere cancellati dalle feroci calunnie di uomini piccoli e meschini."
Parole che le costarono la carriera e la cancellarono di fatto dalla scena artistica. Lo show fu sospeso, le date divennero sempre più rare. Partì per Parigi (dove frequentò altri artisti fuggiti dall'America sempre più Maccartista, da Dizzie Gillespie a James Baldwyn), si esibì in Africa, Medio Oriente, si separò dal marito Adam Clayton Powell, attivista e politico, primo afroamericano a essere eletto membro del Congresso nello stato di New York. Tornò in America solo nel 1967 dove ritrovò solo una piccola parte della considerazione artistica precedente, continuando a suonare in tutto il paese, fino al 1981 quando un cancro la portò via definitivamente all'età di 61 anni.

Il suo nome scomparve velocemente dalla storia e finì a lungo nel dimenticatoio.
Nel 2019 Alicia Keys, durante la consegna dei Grammy Awards ha voluto onorare il talento di Hazel, suonando in contemporanea due pianoforte, pratica che rese famosa la Scott in una ripresa cinematografica. I giornali hanno ripreso l'immagine, il video e la notizia riportando agli onori della cronaca il ricordo dell'immensa pianista jazz.

Per apprezzare il talento smisurato di Hazel Scott ci sono antologie in abbondanza ma un disco in particolare svetta per importanza, classe e soprattutto tecnica, che unisce la genialità di tre mostri sacri della musica jazz.
Hazel al piano è superlativa ma ad accompagnarla, seppure in modalità rispettosa e mai prevaricante niente meno che Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria.
“Relaxed piano moods”, del 1955, è un disco superbo (valga, da solo, “The jeep is jumping”, sublimazione dello swing e della tecnica jazzistica).

venerdì, ottobre 24, 2025

Klaus Romilar - Scala Richards vol.1

Un libro tanto visionario quanto accattivante per noi onnivori musicali.
Quattordici racconti firmati da Klaus Romilar, personaggio leggendario, frutto di un lavoro collettivo di vari scrittori appassionati di musica e letteratura.

Si viaggia in mille direzioni, tra episodi di vita vissuta e altri di situazioni immaginate.
La musica (a 360 gradi, dai Liquid Liquid a Jorma Kaukonen, da Bob Dylan a John Lee Hooker ai Dead Kennedys, ai "mali" del Prog Rock, con tanto di dritte finali in ogni capitolo per avvicinarsi ai nomi citati) è il filo conduttore di ogni episodio.

Ci si diverte molto e, non di rado, è facile immedesimarsi nelle vicende narrate.

Molto gradevole, scritto bene e con tanto gusto.
La prefezione di Marino Severini dei Gang vale da sola l'acquisto.

Klaus Romilar Scala Richards vol.1
Società Editrice Apuana
164 pagine
15 euro


Per acquistarlo qui:
https://www.labottegadiaronte.it/labottegadiaronte/

giovedì, ottobre 23, 2025

Dreamies – Auralgraphic Entertainment

Accogliamo con piacere il contributo di un nuovo collaboratore, l'amico PINCOPANCO di cui l'interessantissima pagina Facebook:
https://www.facebook.com/pincopancoeccentrico

Nel 1973 a Philadelphia, la misteriosa etichetta Stone Theatre Productions pubblica, a nome Dreamies, “Auralgraphic Entertainment”.

Forse, però, l'album esce l'anno successivo e la parola “Dreamies” fa parte del titolo.
Chi si nasconde, allora, dietro questo progetto?
In realtà, si tratta di un’autoproduzione di Bill Holt, un musicista di Claymont, in Delaware.
In quel periodo, Holt lascia il suo lavoro alla 3M per dedicarsi a tempo pieno alla musica.
E così, per più di un anno, passa gran parte del tempo nel seminterrato di casa a registrare il suo materiale.

Diviso in due parti, “Program Ten” e “Program Eleven”, “Dreamies-Auralgraphic Entertainment” sembra una sorta di felice prosecuzione di “Revolution 9”.
Rispetto all’ostico pezzo dei Beatles, infatti, i due brani di Holt uniscono allo slancio sperimentale la vocazione pop. All’epoca, il disco viene venduto nei negozi della zona e per corrispondenza tramite annunci ma non ottiene grandi riscontri.

E così Holt, dopo aver sperperato tutti i suoi risparmi, si ritira dal mondo musicale.
Nel 2025, l'etichetta spagnola Guerssen riporta alla luce questa perla del passato con una splendida ristampa: un'occasione imperdibile per scoprire o riscoprire una pagina dimenticata della musica alternativa.

martedì, ottobre 21, 2025

La storia degli impianti voce

Riprendo l'articolo che scrissi sabato per Il Manifesto nell'inserto Alias, di un paio di anni fa, dedicato a una breve storia degli IMPIANTI VOCI.

Quando i Beatles salirono per l'ultima volta su un palco insieme, il 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco, si ritrovarono in mezzo a uno stadio di baseball, circondati, lontanissimi, sulle tribune, da 25.000 ragazzi e ragazze costantemente urlanti. Per i Fab Four c'erano due monitor agli angoli anteriori del palco, gli amplificatori con un microfono ciascuno e la batteria con la sola cassa microfonata.
Il tutto confluiva negli altoparlanti dello stadio utilizzati per i comunicati durante le partite.
Il rock era diventato grande, non più di pertinenza di piccoli locali o teatri ma una faccenda da stadi, pur trattandosi, in questo caso, ancora di un'eccezione.
Il garbo con cui veniva proposta fino ad allora la musica dal vivo dovette fare i conti con sonorità sempre più dure, chitarre elettriche, organi Hammond, batterie pulsanti e travolgenti, vocalità prorompenti, a beneficio di un pubblico sempre più ampio che non stava più nei piccoli spazi.

Fu l'ultimo concerto dei Beatles, sfiniti da una situazione che non gli permetteva più di suonare adeguatamente, tanto meno di sentirsi. Ringo Starr ha più volte dichiarato che negli ultimi tempi per sapere a che punto fosse il pezzo doveva basarsi sui movimenti dei compagni.

Paul, John e George spesso erano costretti a osservare su quali note stavano andando le mani degli altri per capire in che tonalità fosse la canzone.
Probabilmente con a disposizione gli impianti voce che qualche anno dopo sarebbero diventati la normalità, avrebbero considerato con più benevolenza l'ipotesi di riprendere a suonare dal vivo.
Ci volle un anno ma già dal Monterey Pop Festival del giugno 1967 le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo di quello che é l'antesignano dei moderni PA.

LA STORIA
Gli albori del concetto di amplificazione risale agli Antichi Greci e all’Impero Romano, grazie ai principi dell’architetto Vitruvio che concepiva gli anfiteatri in maniera semicircolare con le sedute progressive verso l’alto a più livelli, sia per una veduta ideale dello spettacolo ma anche per catalizzare meglio il suono e consentire un ascolto ottimale. Anche in anni più recenti, la musica classica veniva composta in base al luogo in cui sarebbe stata suonata e proposta. La musica corale era solitamente lenta e solenne perché doveva essere ascoltata in chiese enormi e riverberanti. La musica sinfonica era grandiosa e maestosa perché il luogo d’ascolto erano grandi sale e teatri.

Allo stesso modo la musica da camera, che, come dice il nome, si suonava in stanze dalle misure contenute, era scritta in modo che si potessero distinguere archi e sfumature più veloci.
I compositori partivano da un concetto di musica già “mixata” scrivendo le parti specifiche di ogni strumento per ottenere l'equilibrio desiderato di ogni brano musicale.

Il termine PA è la contrazione di "Public Address", inteso come mezzo di comunicazione per raggiungere più persone possibili all'interno di stazioni ferroviarie, stadi, negozi, ospedali, aeroporti o hotel. Fino alla fine del XIX secolo, tutte le forme di comunicazione al pubblico venivano eseguite utilizzando l'acustica architettonica: non esistevano alternative praticabili per migliorare l'amplificazione del parlato.

Nel 1875 l'inventore e professore di musica britannico-americano David Edward Hughes creò il microfono a carbone.
Lo chiamò "microfono" per assonanza con il microscopio.
Nacque così il primo componente di un sistema PA moderno.
Poco prima della fine del secolo il fisico britannico Oliver Lodge inventò il primo altoparlante sperimentale a bobina al mondo, conosciuto come il "telefono urlante", alla base del principio che regola gli altoparlanti moderni: un diaframma fatto vibrare da una bobina mobile, il cui suono veniva poi amplificato da un corno svasato.
Nel 1906 l'inventore americano Lee DeForest crea l'Audion, primo dispositivo in grado di amplificare un segnale elettrico.
Edwin Jensen e Peter Pridham, ingegneri della società di elettronica americana Magnavox, durante una serie di test in laboratorio dal 1911 al 1915, collegarono un microfono e un altoparlante a una batteria da 12 volt, determinando il primo verificarsi di feedback acustico.

Il "Magnavox" diventa così il primo sistema PA elettrico al mondo, presentato a San Francisco il 24 dicembre 1915, con 100.000 persone che si affollarono per ascoltare la trasmissione di musica e discorsi natalizi.
L'impianto fu utilizzato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson per parlare a una folla di 75.000 persone a San Diego. Anche la società britannica di telecomunicazioni Marconi per tutti gli anni Venti ha prodotto parecchi sistemi PA per fare fronte a un mercato sempre più in espansione ed esigente. Durante la seconda guerra mondiale vennero progressivamente perfezionati anche in funzione militare ma fino agli anni Cinquanta rimasero impianti di bassissima potenza, non superiori ai 25 watt.

Fu l'avvento del rock 'n' roll che impose la necessità di un'amplificazione che permettesse alle voci (e ad altri strumenti come fiati o pianoforte) di sentirsi sopra la potenza degli ampli da chitarra che arrivarono in breve tempo dai 50 ai 100 watt.

Negli anni Sessanta il problema divenne impellente perché molti locali non avevano impianti adeguati.
Proprio per questo molti gruppi incominciarono a portarsi un impianto voci, insieme agli strumenti, che fosse consono al loro sound. Molto spesso erano i gruppi a sistemare i volumi, non di rado regolandoli loro stessi durante il concerto, senza avere tecnici del suono in sala.
Quando i Beatles suonarono allo Shea Stadium di New York, nell'agosto del 1965, provarono ad ovviare al consueto problema che li attanagliava, distribuendo quattro casse da 175 watt ciascuna nello stadio per rendere intellegibile il suono.
Ma 42.000 persone urlanti produssero qualcosa come 140 decibel di rumore (pari a quello del decollo di un aereo a reazione), esattamente il doppio di quello dell'amplificazione.

Il fonico britannico Charlie Watkins è considerato come il "padre britannico dell'amplificazione".
Creò di fatto la disposizione mixer-amplificatore-altoparlante che figura ancora nella maggior parte dei sistemi PA contemporanei. Al Windsor Jazz & Blues Festival del 1967, Watkins presentò il suo sistema Slave PA, in grado di generare 1.000 W di potenza. Da questo momento le modalità inventate da Watkins divennero la norma nei festival musicali britannici.

Sempre nel 1967 John Meyer, successivamente fondatore della Meyer Sound Laboratories, fu il protagonista del leggendario Monterey Pop Festival per il quale elaborò un impianto di amplificazione a beneficio iniziale della Steve Miller Band.
"A quel tempo era tutto nuovo, con questo stile musicale completamente nuovo appena nato. Mi sono reso conto che avremmo dovuto iniziare a costruire un'intera nuova generazione di apparecchiature in grado di far fronte a questo livello di festival all'aperto. Monterey ha davvero aperto le cose. È stato un evento importante e sapevo che non sarebbe finita lì”.
Dal 16 al 18 giugno 1967 36.000 persone videro così all'opera Who, Hendrix, Janis Joplin, Canned Heat con un ascolto adeguato.

Nonostante nessuno si aspettasse il mezzo milione di persone, al Festival di Woodstock di sicuro era prevista una vasta affluenza di folla. Gli organizzatori si premurarono in anticipo per dare un ascolto adeguato al pubblico.
Michael Lang: “Saltò fuori questo pazzo di Boston che avrebbe voluto provarci. Bill Hanley aveva acquisito una certa fama sulla costa orientale, al Newport Folk Festival, al Newport Jazz Festival e ai concerti di Bill Graham al Fillmore East. Il suo obiettivo era semplice: dare a chi è seduto nell'ultimo posto la stessa esperienza di chi è in prima fila.”
Con la sua troupe pianificarono di piazzare le casse su una piattaforma sopraelevata costruita con compensato e impalcature a 22 metri di altezza a sinistra del palco. Il sistema era progettato per fornire l'audio a 200.000 persone (secondo quanto riferito il più grande fino a quel momento) ma alla fine ha raggiunto le orecchie di 500.000 con una buona qualità.

Ai tempi Hanley non si rendeva conto che stava facendo la storia dell'audio.
Interessante, osservando foto e filmati dell'evento, di come siano stati utilizzati, rispetto alle abitudini odierne, pochissimi microfoni.
La batteria di Michael Shrive dei Santana o quella di Keith Moon degli Who ne hanno, ad esempio, non più di quattro (rullante, cassa, timpano e un panoramico).

Gli anni Settanta consacrano e perfezionano, stabilendo degli standard, il concetto di impianto voci. Nel febbraio del 1970 Bob Heil costruì un impianto appositamente per i Grateful Dead, apportando innovazioni mai sperimentate in precedenza, riuscendo, grazie a un sistema di microfonaggio particolare ad evitare che l’aumento del volume provocasse dei feedback durante il concerto.
L’impianto fu portato fino a 20.000 watt e accompagnò tutto il tour della band americana, diventando un riferimento per i futuri impianti di amplificazione, soprattutto per gli Who che lo ingaggiarono per il giro americano ed europeo di “Who’s next”.
Pete Townshend gli commissionò un’ulteriore evoluzione, riuscendo ad arrivare a una potenza sonora di 115 decibel, posizionando quattro altoparlanti nei quattro angoli dei palasport in cui suonava la band.
I Deep Purple provarono a rubare agli Who lo scettro di band più rumorosa del mondo ma senza successo. Nel 1976 Townshend e compagni al “The Valley” di Londra arrivarono a 126 Decibel. Bob Heil fondò la Heil Sound e lavorò con numerose altre band.

Nel 1973 Owsley Stanley, fonico e progettista ma soprattutto produttore e spacciatore di LSD creò sempre per i Grateful Dead l’impianto Wall Of Sound, un muro di casse dalla potenza di oltre 25.000 watt che permetteva alla band di suonare senza spie sul palco perché i musicisti suonavano davanti alle casse, ascoltando lo stesso suono di cui usufruiva il pubblico.
La band lo utilizzò fino agli inizi degli anni Ottanta quando una struttura del genere diventò obsoleta a fronte della possibilità di ottenere performance simili senza dovere spostare un’incredibile massa di materiale tecnico.
Nel 1974, la casa produttrice britannica Soundcraft rivoluzionò il settore con la Series 1, la prima console di missaggio integrata in un flight case, a 12 e 16 canali, diventato universale tra i mixer analogici.
Fu in questo periodo e grazie alla Soundcraft che il mixer incominciò ad essere posizionato di fronte al palco per ascoltare ciò che effettivamente arrivava al pubblico, modalità che al giorno d’oggi pare ovvia e scontata ma che ai tempi fu una vera e propria innovazione per una corretta fruizione del suono. Contemporaneamente con il potenziamento degli impianti si rese necessario fornire i musicisti di stage monitor o spie.
Bill Hanley progettò così delle casse inclinate a 45 gradi da posizionare a terra in direzione dei musicisti, collegate a un mixer indipendente da gestire direttamente dal palco in base alle esigenze di ogni singolo componente della band che poteva e può utilizzare il volume adatto. Un sistema ancora più che attuale.
Nel 1987, la Garwood Communications ha prodotto Radio Station, il primo sistema IEM wireless in commercio. Oltre a risolvere i problemi di volume del palco, il sistema ha anche dato ai musicisti la libertà di muoversi su palchi di grandi dimensioni e continuare a sentire il loro mix del monitor senza essere legati a un'unica posizione.

Anche se i Pink Floyd iniziarono a utilizzare cuffie sul palco già negli anni Settanta.
Sempre nel 1987 arriva il mixer audio digitale creato dalla Yamaha, il DMP7: un mixer automatizzato per consentire ai tastieristi di gestire la loro gamma sempre più complessa di tastiere e di modificare automaticamente le impostazioni durante gli spettacoli.
E che poi è stato fruito progressivamente da ogni strumentista.
Con il digitale la qualità del suono è sensibilmente migliorata, anche in virtù della possibilità di configurare i volumi dei canali e poterli “richiamare” automaticamente senza doverli fissare in modo potenzialmente non preciso.
Potendo inoltre perfezionare la qualità del mix sera dopo sera.

I mixer digitali possono gestire un'elaborazione maggiore, accogliere un numero infinito di effetti ed essere logisticamente più contenuti in grandezza, maneggevoli e precisi.
La conseguenza è stato il progressivo abbandono delle console analogiche. Un ulteriore miglioramento arrivò nel 1993 grazie a Christian Heil della Heil Sound che introdusse il V-DOSC un sistema di casse che rivoluzionò l’ascolto.
Precedentemente, la potenza che usciva dell’impianto si disperdeva sulla distanza ovvero chi era più vicino sentiva più alto, chi si trovava lontano riceveva volumi più bassi e meno fedeli.
Il nuovo sistema lavora con casse adiacenti che si rinforzano nel suono l’una con l’altra favorendo una dispersione del suono orizzontale ottimale che consente una qualità di ascolto (soprattutto nei locali) uguale per tutti gli spettatori.

La tecnologia ormai fornisce costanti margini di miglioramento e sofisticazione, continuando però a basarsi su quelle fondamenta descritte più sopra, risalenti all’era pionieristica del contesto. Spesso scontrandosi però con l’inadeguatezza dei locali o delle location che ospitano i concerti, a potere consentire il massimo dello sfruttamento delle capacità dei nuovi impianti per farci ascoltare la musica nel migliore dei modi. A un’evoluzione tecnologica non corrispondono, se non in rari casi, luoghi in cui i frutti del progresso possano essere assaporati nel giusto modo.

BOX 1
Gli Iron Maiden detengono il record di grandezza di un impianto voci, quando nel 1988 al Monsters of Rock Festival di Castle Donnington schierarono 360 casse Turbosound sviluppando mezzo milione di watt e raggiungendo un picco di 140 decibel durante il loro concerto (a cui parteciparono, davanti a oltre 100.000 persone, anche Van Halen, Kiss, Metallica, Guns n Roses).

BOX2
Dave Clegg, protagonista a lungo della scena soul inglese ha sottolineato quanto fosse importante la potenza e la qualità degli impianti all’interno dei locali che suonavano Northern Soul a metà degli anni Settanta nel nord dell’Inghilterra:
La musica funzionava al Wigan Casino (mitico locale, “patria” della scena Northern Soul nda) soprattutto per la sua acustica. C'era questa grandissima hall e se prendevi ad esempio un brano come Heaven Is In Your Arms degli Admirations e lo sentivi dal balcone suonava splendidamente. Poi ne compravi una copia, la portavi a casa e sembrava una canzoncina per bambini. Se la canzone aveva il ritmo giusto funzionava, con la gente che ballava come pazza facendo acrobazie.

BOX3 Dal libro di Fabio Fantazzini”Dread Inna Inglan” un passaggio che sintetizza l’importanza dei Soundsystem nella cultura anglo caraibica negli anni 70.
"I sound system, come altri esempi all'interno della diaspora nera, assumono la funzione di rappresentazione di un blocco sociale sistematicamente escluso dai vari organi del sistema. Si configurano come spazi di resistenza culturale rispetto all'esclusione e alla marginalizzazione della comunità nera da parte delle istituzioni.
In secondo luogo acquisiscono maggiore rilevanza politica in quanto vettori comunicativi di messaggi (siano essi la cronaca di un evento o inviti alla ribellione) durante il picco del conflitto da istituzioni inglesi e controcultura nera...i sound system oltre ad essere un luogo di divertimento, sono uno spazio pubblico di scambio di informazioni e di discussione. Il sound system britannico che, in particolare negli anni Settanta, diventa uno spazio politico e un potente vessillo identitario.
Rispetto al reggae registrato su disco e ai club del centro che suonano soul, il sound system è un luogo dove si celebra e si difende l'identità nera senza compromessi, dove si sperimentano nuove forme musicali che influenzeranno tutta la musica britannica (e non solo) nei decenni avvenire e dove si raccontano e condividono le vicende di una comunità al tempo letteralmente presa d'assalto da istituzioni, polizia ed estremisti di destra."

lunedì, ottobre 20, 2025

Garageland #5

E' sempre un piacere, con l'aggiunta, ogni volta, di scoperte sulle sottoculture o realtà affini, leggere riviste come GARAGELAND.
Preziosi scrigni di piccole gemme che altrimenti si perderebbero nell'oblìo e che invece vengono conservate e diffuse ai più curiosi dell'ambito.

E così si passa da Rocky Roberts ai Dexy's Midnight Runners, alla scena skinhead polacca durante la fase socialista, un'interessantissima intervista a Maurizio Gamba degli Ulster 77 nella Roma punk del 77/78, un pezzo intrigante sul calcio e gli ultras in Libano.
Il tutto corredato da foto inedite o comunque rare e una grafica, come sempre curatissima e accattivante.

Per chi ama il contesto, una rivista imperdibile!

Articoli e interviste a cura di Alexandra Czmil (che è anche autrice della foto di copertina), Flavio Frezza, Alessandro Aloe, Letizia Lucangeli, Simone Lucciola, Antonio Bacciocchi, Giuseppe Ranieri e Matt Zurowski.
Contributi artistici di Mattia Dossi, Alo e Alberto Cianfrone AKA Raudo.

Garageland #5
82 pagine
15 euro


https://www.facebook.com/garagelandrivista
https://www.facebook.com/crombiemedia
https://www.facebook.com/roberto.gagliardi.9828

domenica, ottobre 19, 2025

Something about Maggie - 25 ottobre - Poggibonsi (Siena)

Sabato 25 ottobre Sala SET Teatro Politeama di Poggibonsi (Siena) ore 21.30
SOMETHING ABOUT MAGGIE.

A cento anni dalla sua nascita una controcelebrazione: canzoni, parole e immagini da una stagione di lotte disperate.
Suonano i Ratoblanco, racconta Antonio Bacciocchi.

venerdì, ottobre 17, 2025

Not Moving - That's All Folks

Esce oggi, venerdì 17 ottobre, in vinile (azzurro "blues") e CD “That’s all Folks!”, l’ultimo album dei Not Moving.

Dai primi concerti nel 1981 e dell’esordio discografico del 1982, Rita Lilith Oberti, Dome La Muerte e Antonio Bacciocchi hanno portato sempre avanti lo spirito della band. Anche nei lunghi periodi di pausa e allontanamento, i Not Moving hanno continuato a vivere nei reciproci progetti solisti, nella cura di ristampe (spesso con inediti), documentari, un live dagli anni Ottanta, una breve reunion tra il 2005 e il 2006. Nel 2017 il ritorno insieme con un nuovo album e un centinaio di concerti lungo la Penisola.
La storia ora si conclude.
Il rock ‘n’roll salva la vita (come cantava Lou Reed con i Velvet Underground) ma in cambio ti chiede l’anima, il cuore, la carne. Ti divora e distrugge.
Un prezzo concordato già nell’adolescenza e consegnato al Demone. Che ha restituito la vita che i Not Moving hanno sempre voluto e desiderato, nella sua sadica precarietà, anche quando il fisico perde i previsti colpi.
“That’s All Folks” era stato concepito come un omaggio alle radici da cui la band è partita: il blues. L’album si sviluppa su quelle coordinate, guardando però anche al punk, Gun Club, Cramps, The X, psichedelia, Rolling Stones, Bo Diddley e si chiude con il testo di “Not Moving” dei DNA di Arto Lindsay, brano tratto da “No New York” da cui la band prese il nome.

That’s All Folks!

TRACKLIST
1. Soul of a Man
2. But It’s Not
3. Wyoming Girl
4. Saphran Road
5. The Devil with the Blue Dress On
6. On My Side
7. Bo Diddley Doing Something
8. Once Again
9. Ray Of Sun
10. Not Moving

Per l'acquisto: https://lnk.to/thatsallfolks

CREDITS

All songs by Oberti/Petrosino except for “Once Again” (Petrosino), “Soul of a man” (Blind Willie Johnson), “The devil with the blue dress on” (Frederick Long/William Stevenson), “Not Moving” (lyrics by Arto Lindsay)

Rita Lilith Oberti: vox
Dome La Muerte: guitars, sitar
Antonio Bacciocchi: drums, percussions, tablas
Iride Volpi: guitars, backing vocals

Guests: Paolo Apollo Negri: piano, Hammond, keyboards.
Lorenzo De Benedetti e Martin Ignacio Isolabella: backing vocals.

Recorded at Elfo Studio by Alberto Calegari e Matteo Gagliano + Ale Sportelli Recording Studio.
Mixed by Matteo Bordin

Artwork by Luca Galvani
Inner photos: Andrea Amadasi (Lilith, Iride), Enrico Auxilia (Dome La Muerte), Martina Ridondelli (Antonio Bacciocchi)
Band photo: Velvet (Luciano Guazzoni)

TRACK BY TRACK

Soul Of a Man – Brano di Blind Willie Johnson del 1930, il primo provato e arrangiato per l’album, una reinterpretazione aspra di un piccolo classico blues (ripreso anche da Tom Waits e Eric Burdon).

But It’s Not – Rock ‘n’roll, punk, una spolverata di glam e tutta l’essenza della vita. “Credi sia una vacanza ma non è vero (But it’s not!). “L’inizio di batteria è un personale omaggio al batterista dei Jam, Rick Buckler, recentemente scomparso, di cui riprendo la stessa figura ritmica nella partenza della loro “All Around the World”, del 1977 (un anno di riferimento per tutti noi Not Moving)” (Antonio)

Wyoming Girl – Un pizzico dei Doors più blues, un tempo swingante, un piano honky tonk. “E’ la storia di tutte le donne che si trovano a un confine. Le donne sanno bene di cosa parlo”. (Lilith)

Saphran Road – In ogni album c’è sempre stato qualche riferimento più o meno esplicito ai Gun Club, quelli più romantici e disperati di “Las Vegas Story”, per noi maestri e capostipiti della nostra scena. “Il testo è un tentativo “gastronomico” per spiegare che le cose vanno come devono andare.” (Lilith)

The Devil with the Blue Dress On – Un brano conosciuto attraverso la versione proto punk di Mitch Ryder and the Detroit Wheels. Irraggiungibile per efficacia, di conseguenza riadattata a quella dell’autore Shorty Long ma con un taglio Cramps in odore di gospel. “Mi sono molto immedesimata in questo abito, un vestito blue(s).” (Lilith)

On My Side – Una canzone d’amore. “Tu sei sempre stato dalla mia parte” (Lilith)

Bo Diddley Doing Something – Non poteva mancare un omaggio ritmico al grande Bo Diddley, pensando però a come avevano usato il suo groove gli Stooges in “1969”.

Once Again – “E’ un brano con un arrangiamento dark-punk, molto anni 80, è un storia d’amore travagliata, un continuo su e giù, che è anche una metafora della vita che abbiamo vissuto come artisti, picchi di felicità e cadute disastrose, aspettando una risposta che non arriva mai, sogni infranti, senso di inadeguatezza, una guerra quotidiana con sé stessi e le proprie contrastanti emozioni, ma sempre alla ricerca di un riscatto.” (Dome)

Ray Of Sun – “New York nella notte più buia con i lividi di “Black and Blue” dei Rolling Stones. La solitudine. Il raggio di sole. Ma anche quello non scalda” (Lilith).
“Un riff con un andamento celtico, come una danza pagana al rallentatore, con inserti psichedelici, sitar e percussioni.” (Dome)

Not Moving – Lilith declama il testo di “Not Moving” dei DNA di Arto Lindsay, il brano da “No New York” da cui la band prese il nome. La chiusura del cerchio.

Dicono di "That's All Folks!"

"Un disco rock, scarno, diretto... onesto. Rita, Antonio e Dome non potevano scegliere modo migliore per uscire di scena" (Rumore)

"I Not Moving si congedano dallo loro nutrita schiera di ammiratori con un disco che condensa tutte le sfaccettature e gli amori di una vita vissuta all'insegna del rock'n'roll senza compromessi" (Blowup)

"I Not Moving tornano in scena sfoggiando quella speciale magia che la maturità affila a suon di sintesi e naturalezza" (Raro)

"That’s All Folks! è il testamento di una band irriducibile: non un nostalgico sguardo al passato, ma un ultimo urlo pieno di dignità, passione e memoria. I Not Moving se ne vanno come sono arrivati: indipendenti, selvaggi e necessari" (Tuttorock)

"Un disco intenso, che dimostra come in Italia ci siano ancora band rock con la stoffa dei grandi" (Long Live Rcok'n'Roll)

NOT MOVING "That'All Folks!" Tour

Prime date.

Domenica 9 novembre: Lucca "Festival Underground" ore 17
Sabato 22 novembre: Savona "Raindogs"
Venerdì 5 dicembre: Pisa "Caracol"
Sabato 13 dicembre: Poviglio (Reggio Emilia) "Caseificio La Rosa"
Venerdì 19 dicembre: Cagliari "Fabrik"
Sabato 20 dicembre: Sassari "Teatro"
Venerdì 23 gennaio: Firenze "Progresso"
Sabato 24 gennaio: Piacenza “Coop Infrangibile”
Sabato 31 gennaio: Bologna “Circolo della pace”
Sabato 7 febbraio: Varese "Black Inside"
Domenica 8 febbraio: Torino “Blah Blah” ore 18
Sabato 21 marzo : Como "Joshua"
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